Pietà e verità
I corpi degli studenti dell’Università di Garissa in Kenya chiedono pietà. Il metodo è sempre lo stesso: colpire lì dove l’umanità è più indifesa. Davanti a tanti giovani spezzati, quando si stavano aprendo alla vita, parlare di totalitarismo islamico globale è retorico. Non sapremo che cosa sognavano, cosa avrebbero voluto dalla vita e che cosa sarebbero stati capaci di darle. Una violenza tanto brutale quanto raziocinante li ha colti all’Università, nel luogo dove la cultura, il bene e la diversità religiosa si incontrano. Il timore più grande di ogni totalitarismo è l’incontro nella comune diversità tra ragione e bene.
Nel dibattito su quanto accade, esistono tre posizioni. Chi afferma che il problema sia la religione in sé, ancorandosi ad uno spirito tardo-illuminista spesso irrispettoso del sentimento religioso. Una seconda posizione sostiene un Islam edulcorato, promuovendo l’immagine della comunità islamica come vittima di pregiudizi e della cattiva informazione dei mass media. Infine c’è chi promuove l’equazione “Islam uguale a terrorismo”.
Occorre, invece, ripartire da un principio di realtà. Come ricordava san Giovanni Paolo II, il dialogo interreligioso è la ricerca di quanto lo Spirito ha operato nell’uomo e la verità chiede di “fare i conti” con la propria storia. La ragione, escludendo qualsiasi rapporto con la fede, lascia campo aperto al fanatismo religioso: abbandonata dalla ragione, la fede si priva della libertà da Dio che segna l’inizio di un percorso autenticamente religioso. La solitudine della ragione ha generato mostri come il Terrore o la Shoah. Anche se colpita dagli attacchi di Parigi e Copenhagen, l’Europa Unita oggi offre un’importante lezione al mondo, ricordando come democrazia e religione possano vivere insieme.
“Uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati” non è uno slogan di propaganda dell’Isis, ma un versetto della sura IX del Sacro Corano. Si tratta di un’affermazione dirompente se privata del suo contesto storico e se si ignora il momento, cruciale per la prima comunità islamica, nel quale fu scritto. I gruppi dirigenti dell’estremismo islamico conoscono l’interpretazione del testo sacro, ma si guardano dal far incontrare ragione e bene per non privarsi del reclutamento nelle forze delle proprie milizie degli strati poveri della popolazione. Affermare che la radice araba JHR, che origina la parola jihad (lotta armata), è presente nel Corano o sottolineare che il profeta Muhammad ha portato la spada, non significa rendere vittime le comunità islamiche dei mass media. Significa rispettare la loro storia e compiere quell’esercizio di verità che sgombra veramente il campo dai luoghi comuni. Le comunità islamiche italiane sono vittime dei nostri buoni sentimenti e della nostra organizzazione. Il Profeta, uomo della sua epoca, riuscì a superare le divisioni e le leggi tribali di quella società: fece degli Arabi un popolo unito, capace in pochi secoli di fondare una grande civiltà che, nella dhimma, vedeva uno dei suoi elementi costitutivi. Senza pietà e verità, le vittime sono destinate a diventare bandiere e i fedeli degli stereotipi.