E noi siamo Charlie?
Gli attentati nella redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato kosher di Parigi pongono alcune questioni aperte che richiedono di essere messe a fuoco e affrontate, senza scadere nella noia del dopo. Tutti gli attentatori avevano passaporto francese e, almeno sulla carta, dovevano essere integrati. Il modello che abbiamo scelto, basato essenzialmente su criteri di tipo economico, offrendo agli stranieri i lavori che per primi, come europei, non eravamo più disposti a fare, non ha creato integrazione. Considerando queste persone solo come fruitori di servizi, non abbiamo pensato alla costruzione di una reale quotidianità, di una vita realmente condivisa anche al di fuori dell’ambito scolastico che, in ogni caso, resta un contesto istituzionale.
La seconda questione investe il dialogo interreligioso. Per anni, in tavole rotonde, incontri, seminari, abbiamo ricercato il “buon cristiano”, il “buon musulmano” e il “buon ebreo”. Occorre chiederci se non abbiamo rincorso uno stereotipo o preferito un modello ideale rispetto alla realtà umana delle persone: non sempre abbiamo cercato il credente fatto di carne. In fondo, dentro all’aggettivo “buono”, ci stavamo bene, ci sentivamo rassicurati. Presi dalla buona volontà di creare momenti di incontro tranquilli, spesso istituzionali, forse non siamo stati sfiorati dal dubbio che ci sono questioni più profonde, che non possono essere ignorate, come l’uguaglianza tra le persone, la libertà, il rispetto del diritto e, non ultimo, il rispetto della ragione.
Sono i valori sui quali si basa il progetto politico dell’Unione Europea, ma se tali valori diventano un a-priori, dato una volta per tutte, buoni magari solo per riti sempre meno collettivi, perdono di significato: se non si è disposti a vivere per questi valori, allora non si è disposti nemmeno a morire per loro. E questo i terroristi lo sanno. Abbiamo preferito concentrarci su altro, a volte anche su temi alti, come la compassione e la misericordia, oggetto della giornata del dialogo islamo-cristiano nel 2014, oppure su temi di profilo più terreno come l’opportunità di costruire la moschea o meno. Il tutto accompagnato da grandi prolusioni, siano proferite da “grandi” uomini religiosi o agnostici. Questi ultimi, a dire il vero, più pronti a fare professione di agnosticismo, piuttosto che a sollecitare un confronto aperto con gli uomini religiosi, venendo così meno ad uno dei loro compiti storicamente più importanti.
Un’ultima questione riguarda il ruolo della ragione. I fatti di Parigi segnano, in modo drammatico, la fine di un certo modo di intendere la ragione: una ragione assoluta che, confinando la fede e il fatto religioso nella coscienza del singolo individuo, ha lasciato il campo aperto all’irrazionalismo estremista. Come ricordava papa Ratzinger nella lezione di Ratisbona, occorre ricostruire il necessario rapporto tra fede e ragione. È su questo rapporto che oggi l’Unione Europea può offrire una lezione autorevole al mondo: là dove esistono Paesi che, strumentalizzando la religione, impediscono una reale vita democratica ai propri.